Di Gabriella Tambone
Psicologa – Psicoterapeuta
Il disturbo di panico è caratterizzato da una sintomatologia complessa, è sempre più diffuso, e negli ultimi anni si presenta con maggior frequenza anche tra soggetti molto giovani.
Chi ha provato questa esperienza sa perfettamente quanto devastante sia. Durante l’attacco di panico il soggetto è in preda ad un vero e proprio terrore.
La sensazione è quella di non riuscire a sopravvivere ai sintomi che si presentano violenti e spaventosi: tachicardia, sudore, confusione, tremori, dolore al petto, nausea e vertigini, parestesie, svenimenti, il tutto spesso accompagnato da un senso fortissimo di soffocamento e dalla paura di morire.
La narrazione dei pazienti che ne sono vittime è caratterizzata da un’angoscia profonda che non abbandona la persona neanche quando i sintomi acuti passano.
Si sviluppa rapidamente un senso di precarietà costante, si comincia a vivere nella paura della paura, con la sensazione di non essere più padroni di sé stessi e delle proprie sensazioni. Si innesca così un circuito vizioso caratterizzato da una sensazione di allerta permanente.
Lo stato di malessere è caratterizzato da una forte inquietudine anche perché solitamente l’esordio dell’attacco di panico e le sue successive comparse sembrano del tutto slegate da eventi attuali. Non poter trovare una spiegazione nelle circostanze esterne rafforza da un lato la fantasia che si tratti effettivamente di un problema fisico, un infarto, un ictus e dall’altra la sensazione che qualcosa nella testa si sia “rotto” e che tutto questo sia sintomo di pazzia.
Come se non bastasse, la drammaticità dell’evento è acuita dall’esperienza frustrante che spesso il soggetto vive recandosi al pronto soccorso dove spesso non riceve un’accoglienza adeguata e non ottiene alcuna risposta che possa spiegare la sua sintomatologia. La persona non riesce a comprendere come mai a fronte di un’esperienza così catastrofica non ci sia una motivazione razionale.
L’attacco di panico si imprime così nella memoria del soggetto come un evento catastrofico senza spiegazione, senza motivo, inaspettato, acuto e soprattutto non compreso e sottostimato.
Cominciano le strategie di sopravvivenza, ovvero un restringimento del campo di azione ed una sempre maggiore riduzione delle occasioni in cui si rischia di essere soli, sentendo forte la necessità costante di essere accompagnati o sostenuti dalla presenza di persone significative.
L’OSCURA ORIGINE
E’ importante chiarire che l’attacco di panico non è una patologia ma è conseguenza di un’angoscia profonda collegabile ad esperienze e circostanze antiche che probabilmente abbiamo seppellito nella nostra parte più inconscia.
Sappiamo che ogni emozione è collegata ad un oggetto, ovvero ad un evento che la provoca; se questo è vero perché l’attacco di panico viene definito come una “intensa paura generalizzata senza oggetto”?
Se partiamo dal presupposto che un’emozione ha sempre una sua origine possiamo immaginare che nell’attacco di panico lo stimolo che l’ha provocato, ovvero la sua emozione primitiva, sia collocata lontano nel tempo e che emerga in tutta la sua prepotenza in un momento della nostra vita in cui non siamo consapevoli di quanto, per motivo o per un altro, questa paura antica venga riattivata.
Quindi più che una paura generalizzata senza oggetto potremmo cominciare dicendo che è “una paura antica che si è staccata dal suo oggetto originario”, lascandolo fuori dal raggio della coscienza.
L’etimologia della parola Panico deriva, come molti altri termini psicologici, dalla mitologia greca e più precisamente dalla storia del semidio Pan.
La nascita di questa figura mitologica è controversa ma la versione più accreditata vede Pan come figlio dell’amore tra Ermes e la ninfa Penelope. Il Dio per conquistare la giovane ninfa di cui si è invaghito assume l’aspetto umano. I due sono molto innamorati e ben presto Penelope resta gravida. Al momento del parto la ninfa si reca nei boschi per dare alla luce il suo piccolo, ancora non ne conosce le fattezze ma già immagina il suo viso ed il suo amore di madre è colmo di gioia e di tenerezza. Ma quando Penelope dà alla luce il figlio rimane terrorizzata dal suo aspetto, il neonato è talmente brutto ed animalesco che la madre decide di abbandonarlo nei boschi al suo destino. Pan nasce così: ferito in quella esposizione al mondo prematura e angosciante che lascia senza fiato.
Il panico viene associato a Pan perché per tutta la sua vita sarà condannato a terrorizzare le ninfe del bosco per il suo aspetto, pur essendo una creatura generosa e non violenta.
Accanto a questa visione del panico associato al terrore che il Semidio incute, c’è un altro sguardo molto interessante che dà una nuova chiave di lettura, più articolata e profonda, del Disturbo di Panico.
Jaak Panksepp, figura di spicco di quell’area disciplinare che va sotto il nome di “neuroscienze affettive”, propone una visione del Panico come l’eco di un’angoscia lontana.
Ovvero si presume che la “vittima” del disturbo di panico, alla nascita o nei primi mesi di vita, abbia vissuto un’esperienza di separazione traumatica. Che questo vissuto sia legato a circostanze reali (abbandoni, lutti, separazioni) o che sia solo percepito, non fa alcuna differenza rispetto all’interpretazione soggettiva ed alle sue conseguenze.
Visto in quest’ottica il Disturbo di Panico (DDP) non sarebbe solo legato ad una paura generalizzata intensa ed improvvisa, ma anche al risveglio di una sensazione angosciante di solitudine profonda e precoce.
In questa prospettiva sarebbe possibile immaginare che le persone che più facilmente sviluppano un DDP abbiano avuto un’esposizione precoce al mondo esterno senza la presenza, sufficientemente rassicurante, di figure che potessero avere una funzione di mediazione affettiva.
Non a caso tale sintomo è un segnale che “richiama l’Altro”, ovvero il soggetto che ne soffre comincia ad aver bisogno di essere accompagnato, di essere sostenuto da figure di cui si fida, ed è meno preda della paura di un nuovo attacco nel momento in cui non è solo.
Ad avvalorare questa visione c’è anche un altro dato interessante, ovvero che di solito chi soffre di Disturbo di Panico non risponde agli ansiolitici ma risponde con una maggior efficacia agli antidepressivi.
Altro dato importante è che alcune ricerche hanno evidenziato che nel panico c’è una disattivazione dei centri della paura, che solitamente mettono in circolo cortisolo, il così detto ormone dello stress, che ci predispone ad una reazione funzionale alla paura. Nel panico non si attiva nessun sistema legato alle reazioni naturali di lotta o fuga, ma sembrerebbe attivarsi invece un richiamo dell’altro che parte dall’angoscia della separazione originaria.
Quindi potremmo affermare che la radice esperienziale del panico sia una profonda solitudine accompagnata ad una precoce esposizione al mondo.
Il sintomo sembrerebbe necessario come via per ristabilire un legame con l’Altro, poiché nessuno può affrontare l’esistenza da solo, se non appartiene ad un sistema.
Chi ha il panico chiama aiuto con la paura ma fondamentalmente è un disperato grido di solitudine. Questo bisogno è inconscio in quando indicibile; la persona sente di non essere legittimata a percepire l’angoscia della mancanza di un sostegno, soprattutto se l’esordio del sintomo è in età adulta. La paura della solitudine si impiglia così nella parte più inconscia facendo emergere ad un livello cosciente solo il panico come sintomo.
Come già detto l’attacco di panico è spesso caratterizzato dalla paura di morire e di morire da soli, ma la domanda sottostante è “Ho il terrore di morire da solo o sono così solo che potrei morire?”
PUNTO DI SVOLTA: I TEMI PSICOTERAPEUTICI PRINCIPALI
Prima di ogni cosa il terapeuta non deve cadere nella trappola dell’impotenza e dell’angoscia del paziente. La chiave del lavoro è essere autenticamente al suo fianco per affrontare insieme un percorso di ricostruzione della fiducia. Il primo passo è quello di consentirgli di vivere la terapia come uno spazio dove poter esperire un legame affettivo, contenitivo ed allo stesso tempo capace di accompagnarlo verso un’autonomia.
Andare oltre la paura: aiutare il paziente ad esplorare temi antichi che possano portare a rintracciare vissuti di solitudine. Una volta individuati vanno espressi e rinarrati dandogli un valore ed uno spazio di accoglienza. In questa visione il panico viene compreso nella sua essenza e quindi visto come un gap nello sviluppo evolutivo della persona, una disarmonia tra il bisogno di autonomia e quello di protezione da parte del sistema di appartenenza. L’età media dell’esordio dell’attacco di panico si sta molto abbassando e questo anche perché siamo in una società liquida, accelerata, individualista e con sempre meno rituali. In questo tipo di sistema relazionale i legami sono percepiti fragili e inafferrabili.
L’altro aspetto importante da osservare nel percorso terapeutico è quello che riguarda i “passaggi di vita” ovvero le linee temporali che possono aiutare a correlare il sintomo a degli eventi importanti come cambiamenti, perdite, separazioni e traumi non riconosciuti come tali: lutti di una persona importante che fungeva da mediatore (oltre che i genitori queste figure significative possono essere state anche nonni o zii persi prematuramente o che per altri motivi hanno abbandonato questa funzione).
L’altro aspetto su cui lavorare è l’appartenenza relazionale, ovvero accogliere la richiesta di recuperare lo stile di vita precedente, quello condotto fino al momento prima dell’esordio del sintomo. Per questo è necessario lavorare affinché il paziente allaghi la sua rete relazionale, sociale ed amicale, per andare incontro al suo bisogno di sicurezza ed appartenenza. Aiutare il soggetto a costruire e nutrire legami.
Il paziente non va spinto verso l’autonomia prima di aver lavorato sulla costruzione di un ponte che colmi il gap, ma va sostenuto nella creazione di relazioni significative.
Anche i bambini crescono da soli ma devono essere accompagnati nell’esplorazione.
La prima forma di appartenenza nutriente può essere la terapia, come già detto il paziente fa esperienza in questo territorio protetto dove può riconciliarsi con il mondo e superare la diffidenza originaria.
Per concludere potremmo dire che il mondo non lo si affronta da soli.
Il mito dell’Eroe che combatte in solitudine va abbattuto e riorganizzato partendo da un concetto di fondo che “nessuno si salva da solo”.
Bibliografia
- Attacchi di panico e postmodernità. La psicoterapia della Gestalt tra clinica e società Gianni Francesetti
- I fondamenti emotivi della personalità. Un approccio neurobiologico ed evoluzionistico Jaak Panksepp, Kenneth Davis
- Attacco di panico. A un passo dalla libertà Rosario Sorrentino