Molto spesso nella relazione d’aiuto ci ritroviamo a “maneggiare con cura” le emozioni delle persone che richiedono il nostro sostegno; la maggior parte delle volte il lavoro più delicato è proprio quello di accompagnarle al riconoscimento delle emozioni che provocano il disagio. La prima fase di ogni terapia richiede un grande lavoro per legittimare gli stati emotivi ed interrompere il circuito di pensieri giudicanti. La durezza con cui parliamo alle nostre parti più emotive non permette di accoglierle, impedendoci di attuare un reale processo di cambiamento. Questo giudizio interno non solo impedisce un movimento ma ancor peggio, non ci permette di essere in contatto con il nostro sofisticato sistema di protezione e difesa, perché è proprio a questo che le emozioni servono, sia quelle piacevoli che quelle spiacevoli.
Ogni emozione è strettamente connessa alla sopravvivenza ed è per questo che ogni emozione è collegata ad una funzione specifica.
Da cosa dipende la difficoltà di entrare in contatto con le nostre emozioni?
Intanto c’è da considerare un contesto sociale e culturale che ha dato sempre più importanza al pensiero; il motto di cartesiana memoria “cogito ergo sum” ha favorito sempre più la dittatura del pensiero, inducendoci a considerare le nostre emozioni come segnali poco affidabili e a tratti anche limitanti, una debolezza piuttosto che una risorsa.
Questa difficoltà di accettazione e riconoscimento è a carico soprattutto delle emozioni spiacevoli: il dolore, la paura e la rabbia.
Chi di noi non si è sentito dire più e più volte farsi come: “Su su, non piangere”, “Stai calmo, non c’è bisogno di arrabbiarsi così” o ancora “Non devi aver paura”.
Siamo cresciuti con convinzioni precise: “la paura è una forma di debolezza” (non parliamo poi se si tratta di un uomo), “il dolore si deve negare perché dobbiamo dimostrare di essere capaci di superare traumi o perdite in un tempo rapido”, l’aspettativa è quella di essere sempre performanti, “essere arrabbiati significa essere violenti” per cui se la contattiamo siamo quelli che hanno un pessimo carattere ma se la neghiamo ci sentiamo sopraffatti dall’ingiustizia danneggiando solo noi stessi.
Molte malattie psicosomatiche, e non solo, sono la manifestazione fisica di emozioni compresse.
Per capire bene come funzionano le emozioni dobbiamo tener presente che seguono lo stesso principio fisico di un gas: se vengono compresse aumentano il loro volume e prima o poi trovano una via di fuga che non sempre è quella sana e funzionale. È per questo che abbiamo l’impressione che siano dannose, solo perché non ce le permettiamo e reprimendole si amplificano sfuggendoci di mano.
Ma cosa sono le emozioni?
Partiamo dalla loro etimologia ex-movere, letteralmente portare fuori. Ogni emozione spinge verso un movimento, interno o esterno a seconda della sua funzione specifica.
Da molti autori le emozioni sono state definite come delle “reazioni di breve durata” scaturite da stimoli interni o esterni che a loro volta provocano cambiamenti a diversi livelli: fisiologico, (respirazione, battito cardiaco, sudorazione, rossore, ecc..), corporeo-comportamentale (espressioni facciali, postura, tono e ritmo della voce, ecc…) e cognitivo (attribuzione di significato soggettivo allo stimolo che ha provocato l’emozione).
Comprendere il significato specifico di ogni emozione, permette di essere profondamente in contatto con sé stessi, e quindi di poter aumentare la nostra capacità di agire nel “qui ed ora” in modo funzionale, senza essere preda della nostra parte emozionale inconsapevole.
Quali sono le funzioni specifiche di ogni emozione?
Intanto è necessario sottolineare che le emozioni di base, ovvero quelle da cui poi scaturiscono tutte le sfumature di intensità, sono essenzialmente cinque, come molti autori hanno evidenziato (Ekman, Lazarus e altri): paura, dolore, rabbia, gioia e disgusto.
Il film Inside Out le esprime benissimo e per quanti di voi non l’avessero visto lo consiglio vivamente.
Prima di addentrarci nelle specificità di ognuna è bene evidenziare che non esistono emozioni negative ed emozioni positive, come siamo abituati a pensare, ma solo emozioni piacevoli ed emozioni spiacevoli.
Vediamole brevemente:
LA PAURA
È un’emozione che appare precocemente nella vita di ogni individuo: i neonati si aggrappano alle figure di riferimento e solo quando si sentono sufficientemente rassicurati lasciano spazio alla curiosità e al piacere.
La paura ha una funzione essenziale sia da un punto di vista individuale che collettivo ed è strettamente connessa all’empatia, meccanismo innato attraverso cui ci sintonizziamo con l’emozione degli altri.
La paura mette in circolo l’adrenalina e il cortisolo (il così detto ormone dello stress) che fa sì che l’apparato muscolare si predisponga al movimento che può portare alla fuga o all’attacco a seconda delle circostanze. A volte, a differenza di quanto comunemente si pensi, la fuga è la migliore risposta per non soccombere ad un pericolo. Le specie che sono sopravvissute ce lo dicono chiaramente!!!
Ogni emozione per essere funzionale alla sopravvivenza deve essere sempre collegata ad un oggetto, nel caso della paura l’oggetto è il pericolo o quello che percepiamo tale. Capire esattamente da che parte arriva il pericolo è necessario affinché il sistema possa avere la sua utilità.
Quando la direzione del pericolo non è chiara o quando la paura è legata al passato e non al “qui ed ora”, diventa ansia o panico.
Quindi la sua funzione principale è proteggerci da un pericolo, non sentirla può essere molto rischioso!
LA GIOIA
E’ l’unica emozione piacevole. Nei neonati si manifesta con il soddisfacimento dei bisogni primari ed alla realizzazione di un desiderio.
La funzione basica di ogni emozione è quella di regolare la relazione madre-bambino. Il pianto serve per esprimere un bisogno che sia quello di essere allattato, sollevato o rassicurato. La gioia è utilizzata in modo innato dal bambino quando un suo bisogno fisiologico e/o emotivo è stato soddisfatto.
La gioia, nello specifico, è funzionale alla creazione di relazione, soddisfacendo anche qui un istinto di sopravvivenza, in quanto per un neonato la relazione e la presenza di una figura adulta è indispensabile per la sopravvivenza.
Quindi l’oggetto della gioia è la relazione e autoregola la soddisfazione dei bisogni.
Mostrare il nostro sorriso significa comunicare che abbiamo il piacere di stare lì, in quella situazione e che non abbiamo nessuna intenzione di essere aggressivi. Aiuta a sentirci meno soli e a soddisfare quel bisogno di appartenenza fondamentale per ogni essere umano.
LA RABBIA
Rispetto alle altre è considerata un’emozione disdicevole e socialmente inaccettabile.
Per questo molto spesso è l’emozione più repressa. Nello specifico la rabbia è strettamente collegata dall’istinto di difenderci, difendere il territorio, il confine fisico ed emotivo. Ha anche a che fare con un senso di affermazione di sé. “Io esisto e ho dei diritti!”
La rabbia ha come obbiettivo primario quello di respingere un agente nocivo, l’invasore o colui che mi fa un torto.
E’ per questo che la rabbia da un punto di vista psicofisiologico alza il livello di energia e di tensione corporea, proprio perché c’è più bisogno di fare un movimento netto di difesa.
Se la rabbia non viene espressa la persona tende a vivere uno stato di tensione perenne che può cronicizzarsi e dare luogo a molti disturbi psicosomatici, o può essere retroflessa, ovvero rivolta verso noi stessi.
IL DOLORE
Come la paura, il dolore viene spesso scambiato per debolezza.
Viviamo in una società che associa la tristezza ad una fragilità e quindi ad un percepirsi ed essere percepiti vulnerabili.
La tristezza, che nella sua forma più acuta diventa dolore, ha la funzione di darci un tempo per metabolizzare eventi spiacevoli.
Se il dolore viene accolto può rivelare in pieno la sua azione riparatoria e innovatrice trasformandosi, a tempo debito, in un potenziale stimolo al cambiamento.
La crisi derivante da momenti di tristezza può infatti essere letta come un segnale d’allarme che qualcosa nella propria vita non va e quindi, se ben gestita, può essere una spinta a fare delle scelte che mutano delle condizioni ormai disfunzionali.
IL DISGUSTO
L’aggettivo che ne deriva: disgustoso, come i suoi sinonimi stomachevole e schifoso, è riferito a qualcosa di nauseante, ripugnante o a qualcuno di estremamente sgradevole
Pensiamo per esempio a quanto sia per noi protettivo provare disgusto per un cibo avariato, questo ci permette di percepirne la pericolosità e di espellerlo il prima possibile.
Questo accade anche per le situazioni o per le persone.
Non a caso il disgusto compare nell’uomo già nei primi mesi di vita ed inizialmente è rivolto verso odori e sapori ritenuti sgradevoli.
Nello specifico si tratta di una reazione neurochimica, che nel tempo, acquisisce significati psicologici: non condiziona solo il senso del gusto e dell’olfatto ma si allarga alla sfera cognitiva dell’essere umano (ad esempio disgusto per alcune azioni, pensieri, immagini), e in questo caso diviene consuetudine parlare di disprezzo, considerato una “evoluzione sociale” del disgusto.
Per concludere è necessario sottolineare che possono coesistere diverse emozioni anche molto diverse tra loro. Siamo abituati a ragionare in una modalità dicotomica: «Se provo questo non posso provare anche questo». Non è così, siamo molto più complessi e in noi possono coabitare più emozioni, il conflitto interno e la confusione è data spesso dal non voler riconoscere la loro coesistenza. Considerare che siamo complessi e che siamo mossi da molte emozioni contemporaneamente consente anche di spiegarci momenti di confusione e disagio.
Darci il permesso di provare ogni tipo di emozione senza giudicarla e comprenderne la funzione specifica, consente non solo di aumentarne la consapevolezza ma anche di poterne svelare il messaggio, più o meno occulto, per poter trovare la giusta via per la trasformazione.
L’ostacolo maggiore si incontra quando le emozioni del presente sono in realtà solo lo strascico di qualcosa di più antico. Qualcosa che ha a che fare più con il nostro bimbo interno che con l’adulto di oggi.
Molto spesso il disagio che porta alla richiesta di un sostegno psicologico affonda le sue radici in queste emozioni antiche, non riconosciute e che inconsapevolmente condizionano ancora la nostra vita. Infatti in questo caso ogni stimolo viene inconsciamente “tradotto” con quel sottofondo emotivo. Riconoscere quali sono le nostre emozioni cristallizzate ci aiuta a comprendere alcune reazioni a volte considerate eccessive o disfunzionali. Essere consapevoli di questo porta a non leggere quello che ci accade con un’unica lente.
Le emozioni, se ascoltate nella loro funzione profonda, sono luci che orientano il cammino.